Tecnica, Occidente, liberalismo: la falsa equazione
Pubblichiamo la versione italiana dell’articolo in francese che gli amici di Rage ci hanno concesso di far uscire sul loro portale, come contributo al dibattito europeo sul prometeismo.
I recenti dibattiti su prometeismo, accelerazionismo e tecno-ottimismo cui si assiste sempre più spesso nel mondo anglosassone e in quello francofono (l’Italia pare purtroppo inguaribilmente provinciale e marginale da questo punto di vista) sembrano quasi tutti riposare su un punto di partenza dato per scontato. Tanto i tecno-ottimisti che i tecno-pessimisti tendono considerare evidente un’equazione: Occidente = modernità = capitalismo = accelerazione tecnologica. Questa catena di equivalenze è considerata incontestabile tanto dai suoi apologeti che dai suoi critici. Si creano così delle narrazioni in cui tutto sembra tenersi e anche chi concentra la sua attenzione solo su un punto dell’equazione, subisce una forza d’attrazione che lo porta a sposare anche gli altri punti. Chi è critico dell’Occidente si troverà quindi a scivolare quasi inavvertitamente verso posizioni anti tecnologiche; viceversa, i sostenitori di una visione prometeista saranno portati ad avere una visione positiva anche dell’Occidente nella sua generalità. E così via.
Con il presente scritto intendo contestare la presunta evidenza di questa equazione e spezzare quella catena logica. In quanto cofondatore della rivista Prometheica, che ha già pubblicato le traduzioni italiane di diversi interventi usciti originariamente su Rage, vorrei provare a spiegare perché, secondo me, può esistere un prometeismo non occidentalista e non necessariamente capitalista. Preliminarmente, tuttavia, è necessario chiarire un aspetto: il fatto di criticare l’Occidente e il capitalismo non colloca automaticamente chi scrive nelle schiere di coloro che idolatrano Putin o gli ayatollah iraniani, di chi idealizza qualsiasi satrapia straniera purché antiamericana. L’unico antioccidentalismo che per me ha senso è quello che parte dal mito e dal progetto di un’Europa potenza. Su questo argomento ho da poco scritto un pamphlet, Europa vs Occidente, appena tradotto in francese.
Affinché l’articolo sia comprensibile, sarà anche necessario spiegare quanto meno le categorie essenziali a cui esso fa riferimento, seppur in forma sintetica. Chiamo Europa lo sviluppo del mito indoeuropeo, ovvero l’eterno rinnovarsi in forme diverse di una specifica mentalità, incarnata in popoli storici ben precisi, secondo quanto illustrato da Dumezil, Benveniste e Haudry, secondo il profilo filologico, e da Giorgio Locchi e Guillaume Faye secondo quello socio-politico. Chiamo invece Occidente l’ideologia che supporta l’egemonia statunitense e che deforma il retaggio europeo integrandolo in un quadro nuovo, di matrice essenzialmente biblica, sintesi che tuttavia non può non generare eterne crisi di rigetto. Si tratta di due definizioni su cui non posso ulteriormente dilungarmi in questa sede, che certamente sono arbitrarie (ogni macro categoria ermeneutica lo è), ma, a parer mio, non storicamente infondate.
Tanto per cominciare, bisogna sottolineare come non esista alcun automatismo che leghi lo sviluppo tecnico al contesto liberalcapitalistico. Non solo, come è ovvio, il mondo ha conosciuto grandi scoperte e innovazioni nei millenni che precedono l’invenzione del capitalismo, ma anche nella modernità il mondo non liberale non è certo rimasto nella stasi: il primo uomo nello spazio lo ha mandato la Russia sovietica, Guglielmo Marconi e Wernher von Braun hanno portato avanti le loro innovazioni in regimi antiliberali. Oggi in molti ambiti cruciali, dalle biotecnologie alla robotica, Stati non occidentali e spesso non liberali primeggiano sull’Occidente. Ciò che è esistito e in qualche misura esiste ancora è il genio faustiano europeo, che certamente in una particolare fase storica si è trasferito, pur tra mille contraddizioni, all’Occidente a guida americana, consentendo il suo straordinario sviluppo. Ma oggi quella spinta pare esaurita.
Ogni ideologia che parta dall’esaltazione della natura dinamica e conquistatrice dell’Occidente capitalista appare infatti irrimediabilmente in ritardo. La potenza accelerante del capitalismo, la funzione «sommamente rivoluzionaria» che Marx attribuiva alla borghesia nella storia, sembrano appartenere a una fase superata. Magnati istrioni alla Elon Musk a parte, peraltro con tutti i limiti del caso, il capitalismo non sembra oggi portatore di una qualche forza propulsiva, di una capacità di portarci verso l’altrove. Al contrario, il consumatore del terzo millennio è sempre più sedentario: Netflix porta il cinema tra le quattro mura, Facebook permette di avere rapporti sociali senza muoversi dalla cameretta, Amazon recapita a casa ogni tipo di oggetto, Deliveroo ci porta da mangiare e Pornhub ci dà il sesso a portata di mano. La spinta faustiana a esplorare, conquistare, scoprire sembra esaurita, mentre il sistema economico-culturale non fa che promuovere i valori della comodità, della piccola utilità, della felicità tiepida e beota. Oggi la tecnica non ci dà la bellezza della velocità, bensì l’elogio dell’immobilità.
Nel suo saggio Slowdown: The End of the Great Acceleration, Danny Dorling, docente di geografia a Oxford, ha recentemente cantato le lodi della Grand decelerazione che dovrebbe soppiantare la Grande accelerazione moderna e che sarebbe in parte già in corso. Noi non ce ne accorgiamo, spiega lo studioso britannico, ma dal punto di vista demografico, ecologico, culturale, stiamo già rallentando. Persino nell’ambito della tecnica, Dorling è convinto che ci si stia per arrestare. Quanto a ciò che troveremo nell’orizzonte prossimo venturo, «è più probabile che si tratti solo di miglioramenti di vecchie tecnologie, come le pile e le batterie, anziché dell’invenzione di nuove tecnologie, come il teletrasporto». In Dorling, che in questo rappresenta bene la classe intellettuale occidentale, la diagnosi si accompagna a una precisa scelta di campo («rallentare è un’ottima cosa», «dobbiamo smettere di considerare una iattura la stagnazione»), oltre che un’epica schiettamente anti-futurista. La stessa, imbarazzante difficoltà riscontrata nei nuovi progetti di allunaggio da parte della Nasa, che fanno la gioia dei complottisti, la dice lunga sulla fase storica che stiamo vivendo.
Ora, il punto saliente è che questa deriva passatista, questo culto della stasi, si nutre esattamente dei presupposti ideologici fondamentali del liberalismo: utilitarismo, culto dell’individuo, etc. Nel Manifesto del Tecno-ottimismo di Marc Andreessen questa contraddizione appare in modo chiaro. Il testo, infatti, fa stare insieme a fatica istanze molto diverse fra loro: futurismo, prometeismo, ideologia dell’avventura, del rischio, della scoperta, da una parte, e piccolo utilitarismo individualista, dall’altra. Andreessen cita la famosa frase di Adam Smith: «Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse». Ma da quale interesse particolare dobbiamo aspettarci la colonizzazione di Marte? L’uomo non è andato sulla Luna perché la bottega all’angolo voleva espandere il suo business, ci è andato perché un immenso apparato statale, dilapidando fortune incalcolabili per ragioni di potenza politica, ha ritenuto valesse la pena rischiare questa impresa titanica. Quale utilità personale perseguivano gli astronauti imbarcandosi in quel viaggio pieno di incognite? Sicuramente ne hanno ricavato una posizione sociale invidiabile, ma la molla principale è stato l’orgoglio, la volontà di esplorare nuovi mondi, lo spirito faustiano di conquista. Nessuna ragione utilitaria avrebbe consigliato quell’impresa. Questo sentimento faustiano del mondo è peraltro più volte evocato nel manifesto, che non è indifferente all’aspetto propriamente poetico della tecnica, ma che viene allo stesso tempo forzatamente accostato a una visione ben più miope e bottegaia.
Nel suo elogio della macchina tecno-capitalistica ostile allo Stato, Andreessen sembra inoltre ignorare – ma, data la sua posizione, è impossibile che si tratti di autentica ignoranza – quanto lo Stato americano interagisca a ogni livello con gli stessi Big della Silicon Valley, quanto lo sviluppo di certe piattaforme sia favorito politicamente in quanto strumento di soft power statunitense, e anche quante tecnologie apparentemente anodine siano in realtà di origine militare o comunque statale. Caso tipico è l’iPhone, il prodotto del genio «hungry» e «foolish» di Steve Jobs, ma per il quale, in realtà, la Apple non ha fatto altro che cavalcare l’onda di imponenti investimenti pubblici. La tecnologia touch-screen, per esempio, fu sviluppata da Wayne Westerman e John Elias all’Università del Delaware nel quadro di un programma di borse post-dottorato della Nsf e della Cia. Siri, l’assistente virtuale di Apple, nasce da una richiesta della Difesa che chiedeva un «segretario virtuale» destinato al personale militare. Il Gps nacque come progetto del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti per digitalizzare il posizionamento geografico e accrescere il coordinamento e l’accuratezza delle armi e dei mezzi militari sul terreno. E così via.
Ovviamente non è possibile negare che accelerazione tecnologica, liberalismo e capitalismo siano stati in alcune fasi storiche convergenti. Pensiamo solo allo straordinario sviluppo industriale, commerciale e tecnologico dell’impero britannico. Il punto, tuttavia, è che tale convergenza appare oggi terminata. Del resto l’unica ideologia occidentale che oggi viene importata nel mondo è quella woke: difficile immaginare qualcosa di più antiscientifico e stagnante. Ma se l’Occidente non è la salvezza, allora a cosa aggrapparsi? All’Europa potenza, per esempio. A un rinnovato sogno europeo, non necessariamente anti-americano, ma certamente non-americano. Su questo piano, peraltro, ho l’impressione che la scelta sarà obbligata: di fronte a un’Europa veramente consapevole di se stessa e decisa a recitare un ruolo da protagonista, senza più complessi di colpa, saranno gli Usa a scegliere per noi e a rivelarsi esplicitamente anti-europei.
Prevengo un’obiezione: non è forse intellettualmente disonesto contrapporre l’Occidente reale a un’Europa ideale? Se è possibile innalzare il vessillo di un’Europa potenza del tutto ipotetica a fronte di un’Europa reale completamente decadente, perché non è possibile fare lo stesso con l’Occidente? A questa obiezione si possono opporre tre risposte. 1) L’Europa potenza è certamente un sogno, ma non un miraggio. Esistono progetti, strutture, volontà politiche solo abbozzate che vanno in questa direzione. Deve solo saltare una sorta di tappo culturale, prima che veda la luce la singolarità europea, che come la singolarità tecnologica, una volta avviata, sarà inarrestabile. 2) Seguendo Guillaume Faye, io credo che l’Occidente non sia in declino, ma che sia il declino. Che, cioè, si tratti di un’ideologia intrinsecamente decadente, individualista, antistorica, di cui l’ideologia woke è un figlio perfettamente legittimo. Se l’Europa è decadente perché alienata dalla sua vera essenza, l’Occidente lo è perché sviluppa la sua vera essenza. 3) Esiste infine una motivazione perfettamente nominalistica: noi siamo i miti che ci scegliamo. Possiamo certamente motivare con argomenti razionali tale scelta, ma il suo fondamento resta arbitrario. Io non sono occidentale perché ho scelto dei miti fondatori come l’epica omerica, Eraclito, l’impero romano, il Così parlò Zarathustra, i miti wagneriani, la poetica di D’Annunzio e Marinetti, che l’Occidente considera da sempre problematici, se non blasfemi. Su questo livello, le spiegazioni logiche a un certo punto devono arrestarsi e lasciare spazio a una scelta di campo incomunicabile, secondo quelle che Oswald Spengler chiamava «le idee senza parole».
Adriano Scianca