«L’aria è cambiata». Giovanni Gentile e la nuova scienza
Una delle accuse ricorrenti mosse nei confronti di Giovanni Gentile (di cui oggi ricorrono gli 80 anni dalla morte), certo marginale rispetto a quella prettamente politica, ma pure in qualche modo da essa derivata, è quella di essere stato il responsabile del ritardo scientifico dell’Italia. La sua visione rigorosamente gerarchica del sapere, concepito come una piramide i cui strati superiori sono occupati dalle discipline umanistiche con al vertice la filosofia, così come, in sede pratica, la centralità che il liceo classico ha assunto nella sua riforma della scuola, avrebbero condizionato in modo profondo la storia culturale italiana. Che un rischio in questo senso esistesse, in verità, lo avevano capito per primi i fascisti, che contestavano la natura elitaria della scuola gentiliana e che nella successiva riforma Bottai avevano cercato di avvicinare il mondo della cultura e del lavoro, la teoria e la prassi.
Da qui a fare di Gentile un nemico della scienza, tuttavia, ce ne passa. Le acquisizioni filosofiche, oltre che storiografiche, degli ultimi anni ci permettono anzi di azzardare che forse proprio a partire dall’ontologia «processuale» gentiliana sia possibile, come sostiene il filosofo Rocco Ronchi, «fornire la scienza contemporanea del suo adeguato orizzonte speculativo», laddove Benedetto Croce, che liquidava i concetti scientifici a «pseudoconcetti», ci appare oggi come un rudere inservibile. Gentile, a ben vedere, non polemizza con la scienza in sé, ma piuttosto con il positivismo, che al suo tempo era considerato l’unica forma di pensiero adeguata a «incorniciare» i progressi delle scienze. L’impronta banalmente dualistica e cartesiana, l’idea che a uno scienziato-soggetto si contrapponesse una natura-oggetto da studiare pezzo dopo pezzo fino a scoprire ogni volta un aspetto nuovo di una realtà già data una volta per tutte, non poteva certamente piacere al teorico dell’attualismo.
È tuttavia degno di nota che lo stesso Gentile avesse percepito il cambiamento epistemologico avvenuto nella fisica del Novecento e ne avesse accuratamente preso nota. Dopo aver assistito al Congresso delle scienze tenutosi a Trento e Bolzano nel settembre del 1930, il filosofo scrisse su Politica sociale un resoconto significativo. Gentile si rendeva conto di trovarsi di fronte a un «profondo rivolgimento del pensiero italiano». Fino a poco tempo prima, infatti, scienza e filosofia erano viste dagli addetti ai lavori di entrambi gli ambiti come «due mondi, ciascuno chiuso in sé ed estraneo all’altro». Gentile ne era sicuro: «È di ieri il fatuo sorriso di sufficienza con cui fisici e matematici italiani di primo ordine pronunziavano il nome della filosofia. Oggi le cose sono profondamente mutate, fuori d’Italia e tra noi. Qualcuno, arretrato o distratto, tenta ancora di abbozzare il sorriso d’una volta; ma il sorriso gli muore sulle labbra, come chi s’accorgesse di sorridere di se stesso. L’ambiente non è più quello; l’aria è cambiata. Il pensiero intorno alle scienze, lo stesso pensiero con cui gli scienziati pongono i loro problemi e perseguono le loro ricerche, è mutato radicalmente».
Gentile aveva chiaramente percepito la direzione post cartesiana e non dualistica intrapresa dalla scienza: «Oggi invece gli scienziati si sono accorti che questa realtà di cui si parla, è in toto, una costruzione di questo pensiero con cui si pensa; che è fantastica perciò la distinzione tra la superficie e il fondo di essa; che non da essa vengono i problemi, ma dal pensiero in cui essa si fabbrica e variamente si plasma; e che insomma il pensiero ha da fare sempre con se stesso». Il filosofo elogiava inoltre la nuova profondità storica maturata dagli scienziati: «Oggi, riconquistato il suo centro, la scienza riconquista la sua consapevolezza storica; e ogni scienziato sente il bisogno di rendersi conto dei motivi da cui ha tratto origine il suo problema. Il quale ora egli sa bene che non gli è cascato dall’alto, non gli è imposto dall’osservazione del così detto mondo esterno, bensì dai concetti con cui egli scompone e analizza questo mondo che gli sta davanti perché egli stesso se lo pone innanzi, costruendolo».
Significativa, rispetto a certe polemiche neoidealistiche, la conclusione sulla convergenza dei saperi filosofici e scientifici, i quali, per Gentile, «hanno funzioni concorrenti e convergenti allo stesso fine, ma distinte […] in guisa da cercare l’una il proprio compimento nella scienza, e l’altra il proprio compimento nella filosofia: non ignare, né l’una né l’altra, che ciascuna senza l’altra lavorerebbe nel vuoto, non essendovi né universale concreto senza particolari determinazioni né particolare senza un principio che in esso si determini e attui».
Nel Gentile organizzatore di cultura, nessun ostracismo antiscientifico può sensatamente essere ravvisato. Da direttore scientifico dell’Enciclopedia Treccani, il pensatore siciliano chiamò a dirigere la sezione dedicata alla matematica Federigo Enriques, chiedendogli di coordinare il lavoro di una sessantina di studiosi, fra cui Ugo Amaldi, Guido Castelnuovo ed Enrico Fermi. Fu grazie al decisivo apporto di Gentile che Enriques poté creare una Scuola di perfezionamento in storia delle scienze, nel 1924, divenuta poi, nel 1926, Istituto nazionale di storia delle scienze. Nel 1928 il filosofo divenne direttore della Scuola Normale di Pisa e nel 1941 fondò la «domus galileiana», un importante centro di studio per la storia della scienza. Durante gli anni in cui più vivo fu il suo magistero sulla cultura italiana nacquero vari istituti scientifici attivi ancora oggi: nel 1923 nacque il Consiglio nazionale delle ricerche; nel 1926 l’Istituto centrale di statistica; nel 1934 l’Istituto di sanità pubblica e nel 1939 l’Istituto nazionale di alta matematica e quello di geofisica.
Ci si dimentica, inoltre, che Giovanni Gentile jr., figlio e omonimo del filosofo, fu, insieme a Enrico Fermi ed Ettore Majorana, uno dei più importanti fisici teorici italiani della prima metà del Novecento, prima di morire a soli trentasei anni il 30 marzo 1942 per setticemia sopravvenuta per le complicanze di un ascesso dentario. Cruciale fu, in particolare, la sua opera per la ricezione della meccanica quantistica in Italia. La cosa interessante, tuttavia, è che Giovannino, come veniva familiarmente chiamato, si interessava parimenti di filosofia, nella convinzione che l’attualismo rappresentasse la filosofia più adatta per inquadrare i risultati teorici della nuova fisica.
È del resto significativo che, se in una lettera del 10 novembre del 1926 Giovannino scriveva al padre «e anch’io sai, caro papà, sono un tuo scolaro; anche se pare che la mia attività si sia rivolta per altre vie», dopo la sua morte sia stato il filosofo invece a scrivere: «Non ho perduto soltanto un figlio giovane; ho perduto il figlio che era il più amato dei miei scolari (più amato anche perché non mi ripeteva, e lavorava in campo diverso dal mio)». Frasi che paiono, in entrambi i casi, testimoniare una consonanza teoretica che va al di là delle frasi di circostanza. I due Gentile, il filosofo e lo scienziato, si influenzarono vicendevolmente e trassero beneficio l’uno dalle ricerche dell’altro.
Giova ricordare che la ricezione della fisica quantistica fu osteggiata da molti appartenenti alla vecchia generazione dei fisici, tra cui Quirino Majorana, zio di Ettore, che invece faceva parte delle nuove leve entusiaste della novità sperimentale e concettuale proveniente dal nord Europa. Tra i filosofi, invece, furono gli attualisti Guido De Giuli e Guido De Ruggiero a relazionarsi positivamente con la fisica dei quanta, vedendovi appunto una conferma delle tesi gentiliane. Viceversa, un pensatore e scienziato di impianto neotomista come Giuseppe Gianfranceschi non poté non gridare allo scandalo per il modo in cui le nuove teorie mettevano in discussione l’ontologia aristotelica: «La teoria dei quanti, nella sua prima forma, parte da postulati che non si accordano con i concetti fisici della natura e della variazione dell’energia. Nella seconda forma di meccanica ondulatoria i postulati si oppongono a principi ben più fondamentali, come alla distinzione tra sostanza e proprietà, o tra l’azione e il corpo e il corpo stesso».
Adriano Scianca