Sloterdijk e i mostri pazzi che bruciano le cose
«Ora siamo nel fuoco … Ciò che viene chiamato “nichilismo” è combustione … Dalle ceneri nasce poi la Fenice, uccello che simboleggia il regno dell’aria», così Carl Schmitt scriveva a Ernst Jünger per anticipargli il contenuto Terra e mare. Che la nostra epoca appartenga al fuoco lo attesta anche Peter Sloterdijk nel suo recente Il rimorso di Prometeo. Ma il grande incendio spaventa il filosofo tedesco, fino a rendere il libro un semplice manifesto contro l’uso dei combustibili fossili. Un esito deludente, rafforzato in questo anche dalle contrarietà all’energia atomica, intesa come un nuovo e più pericoloso fuoco. Così per Sloterdijk «L’umanità moderna è un gruppo di piromani che appiccano il fuoco a foreste e brughiere sotterranee». La modernità come il regno dei «mostri pazzi che bruciano le cose», per dirla con Svart Jugend. A bruciare non sono nichilismo e disperazione, ma un surplus di energia immagazzinato nelle viscere della terra attraverso i secoli. Da una parte, l’uso dei combustibili fossili nega ogni principio di sostenibilità, non potendo essere sostituiti o ricreati. Dall’altra, è il vettore attraverso cui l’umanità ha trovato una nuova spinta in avanti, svincolandosi dalla scarsità.
Sloterdijk sembra riconoscere un certo epos in questa emancipazione umana che si interseca con le fortune dell’età industriale, del socialismo e dell’avvento del proletariato. Quest’ultimo diventa una forza capace di dar vita a forme nuove: «Laddove il lavoro veniva dichiarato la fonte di ogni creazione di valore, “i lavoratori” potevano essere trasfigurati in creatori di mondi par excellence». Echi jüngeriani che sembrano richiamare direttamente uno scritto fondamentale come L’operaio. Tutto ciò regge almeno finché si è immersi tra i fumi dell’Ottocento, con il loro fascino steampunk e fin de siècle. Nella post-modernità la faccenda sembra rovesciarsi per eccesso e tale spinta eroica si trasforma in qualcosa di detestabile: un rogo che brucia se stesso e il mondo intero. Il Prometeo che aveva spezzato le catene ora finisce per vergognarsi fino al punto provare rimorso di fronte allo scenario attuale, ovvero quello del cambiamento climatico.
Troviamo qui una strana contraddizione tra libertà umana e necessità naturale. La liberazione dal principio di scarsità produce un’esuberanza di potere e la libertà di molti diventa la schiavitù della terra. Il primo socialismo teorizzava che «lo “sfruttamento dell’uomo sull’uomo” doveva essere sostituito dallo sfruttamento della Terra nell’interesse dell’uomo». Ma Sloterdijk sembra quasi rimpiangere la precedente condizione di schiavitù: «L’economia schiavistica con le sue sovrastrutture padronali trova limiti piuttosto rigidi nel fatto che un albero si può bruciare una volta sola»; e ancora: «La legge della scarsità, che resta inviolata, ricorda anche ai tiranni che cedere al desiderio di pretendere l’impossibile non può che mandare tutto in rovina». Insomma, l’uomo avrebbe osato troppo e dovrebbe ora spegnere l’incendio da lui provocato, tornare letteralmente a indossare le proprie catene.
E dire che quella tra l’uomo e il fuoco era stata una lunga luna di miele. Questo è «il più antico complice dell’homo sapiens nella sua fuga dalla sfera delle mere condizioni naturali». In quanto «agens extracorporeo» è l’intersezione che permette all’uomo di modellare il mondo, lo strumento con riqualificare le potenze naturali, la quintessenza della tecnica. Sotto diversi punti di vista il rapporto uomo-fuoco-mondo sembra riprodurre all’esterno quello io-mente-corpo. Ha anzi qualcosa di sacrale, essendo «una prima metafora del divino, accanto al vento, al fulmine e al sole». Tutto ciò viene però negato per le ansie di un catastrofismo climatico. Come ha notato recentemente Lorenzo Cafarchio su Libero: «Il rimorso di Prometeo con l’incedere della pagine diventa un fuoco fatuo dove le fiamme vengono prese di mira da un idrante post-prometeico».
Il filosofo tedesco, prima di troncare le proprie argomentazioni senza una vera conclusione, tenta di indagare anche i possibili scenari futuri individuandone grossomodo tre: un prometeismo irresponsabile, un’uscita dal prometeismo tramite un pacifismo energetico, e, infine, una ribellione neo o iper-prometeica. Il primo significa continuare lo status quo attuale senza preoccuparsi delle conseguenze, il secondo – che è la scelta verso cui propende Sloterdijk – è una visione irenica di risparmiatori ambientali, il terzo è la volontà di «appiccare un fuoco che va oltre la pirotecnica ordinaria» come può essere l’energia nucleare. Quest’ultima opzione, che sembrerebbe quantomeno la più affascinante, viene messa da parte con fin troppa sufficienza per timore di «ulteriori processi di de-democratizzazione della tecnologia», in quanto «tali processi sarebbero condizionati dalla loro dipendenza da uno Stato con poteri di controllo». Al contrario, il pacifismo energetico avrebbe come orizzonte una elvetizzazione del pianeta. Ma questo sembra un altro modo per chiamare la globalizzazione o la creazione di uno Stato mondiale, aprendo così a prospettive più inquietanti rispetto a quella di Stati nazionali divenuti iper-prometeici.
Torniamo però all’immagine dell’umanità come «gruppo di piromani», come «mostri pazzi che bruciano le cose». Per Schmitt l’attuale epoca del fuoco preannuncia l’entrata in quella dell’aria, ovvero un suo spiritualizzarsi. Perfino nella visione oscura e catacombale di Svart Jugend l’atto di bruciare diventa un modo per far esplodere l’insensatezza del reale, come una sorta di catarsi di fronte all’abisso. In Sloterdijk manca tutto questo: non c’è possibilità di attraversare il fuoco, ma solo rinuncia, una impossibile volontà di tornare indietro.
Michele Iozzino