Accelerazionismo indoeuropeo: una critica ad Askr Svarte

Askr Svarte, Gods in the Abyss, Arktos Media, 2020

La recensione a questo testo si ricollega alle seguenti considerazioni dell’amico Francesco Boco, destinate a concretizzarsi in un proficuo contributo alla rivista Prometheica:

 

Il discorso accelerazionista solitamente è punteggiato

da riferimenti esoterici di vario tipo ma quasi mai la ricerca

ermeneutica si rivolge alle antiche lingue indoeuropee,

greco, latino o antico germanico. Ciò significa che l’orizzonte

di senso all’interno del quale spazia la prospettiva

del futuro di questi autori è segnata da una scelta culturale

ben precisa, che ne condiziona la visione del mondo. La

forma mentis che si ricava ad esempio legando la propria

lettura del presente e del futuro alla Cabala, all’esoterismo

islamico o alla demonologia mediorientale  è certamente

differente da quella che si ottiene riattivando il riferimento

al mito greco piuttosto che nordico nell’interpretazione

della tecnica planetaria. Non stupisce perciò che per tutti

gli accelerazionisti, da Nick Land a Mark Fisher, l’assetto

tecno-capitalista non sia in discussione e venga considerato

il solo sistema possibile. Un solo Dio, un solo sistema.

Fracesco Boco, Una visione pluridimensionale della tecnica, in Prometheica VI solstizio d’inverno 2023

Quale immane propulsione concettuale potrebbe scatenarsi se poggiassimo l’accelerazionismo non più sull’esoterismo mediorientale ma sul mito greco o norreno?

Riteniamo cruciale trovare una risposta a tale quesito, anche se siamo certi che la nostra non sia una ricerca volta ad un logos unico, monoteistico, ma piuttosto ad una visione complessa, legata alle concezioni uraniche e politeiste dei popoli parlanti lingue indoeuropee.

Inoltre, occorre verificare se altri autori si siano già cimentati nel fornire un riscontro a questo interrogarsi sul Logos indoeuropeo come momento fondante di una visione alternativa del nuovo inizio.

Tra le varie proposte possibili, quella che ci è parsa più pertinente con le nostre ricerche, è quella insita nell’opera del filosofo tradizionalista Askr Svarte, nome de plume di Evgeny Nechkasov.

In particolare, è la sua opera Gods in the Abyss: Essays on Heidegger, the Germanic Logos and the Germanic Myth edita da Arktos nel 2020 a porre la questione in merito al Logos originario, individuato dall’autore in quello specificatamente germanico.

Askr Svarte è autore di diverse opere di tendenza tradizionalista, tra le quali Polemos I e Polemos II. Inoltre, si è interessato anche di esoterismo e nello specifico ha pubblicato nel 2017 Gap: A Left-Hand Path approach to Odinism.

In Gods in the Abyss il nostro si impegna a trovare un fil rouge tra elementi di mitologia nordica e la mistica di Meisther Eckhart sino alla filosofia di Martin Heidegger. L’autore, la cui famiglia di tedeschi della Bessarabia è stata rilocata in Siberia durante il regime sovietico, definisce apertamente il principio guida della sua “filosofica mitica” come German Logos. Questo attraverserebbe infatti i millenni e, a partire dalla mitologia degli Asi, arriverebbe a piena maturazione prima con la mistica renana di Eckhar e Taulero e infine con la filosofia di Heidegger. Il nostro autore, inoltre, forte di precedenti opere dedicate al principio eracliteo del conflitto, Polemos appunto, innerva tutta la sua trattazione con interessanti riferimenti al pensiero agonale del pensatore efesino.

Questo logos germanico sarebbe contrapposto, sempre secondo Askr Svarte, alla tecnologia materialista moderna, incarnata secondo Asrk Svarte nell’Arbeiter di Junger (sic), interpretato erroneamente come “l’uomo-massa”, schiavo della tecnologia e vittima della modernità.

Tale interpretazione tecnofoba è oltremodo fallace e stupisce in un autore per altri versi decisamente profondo e dotato di indubbio intuito. Vale la pena di fissare alcuni elementi chiave della figura dell’Arbeiter jungeriano, al fine di evitare pericolosi fraintendimenti.

L’Arbeiter – la prima delle tre figure jungeriane, alla quale seguiranno il Ribelle e infine l’Anarca – supera l’ordinamento borghese grazie al suo differente approccio rispetto all’emergere dell’elementare e di tutto ciò che è rischioso e problematico nell’esistenza. Jünger formulerà la sua nota massima «meglio criminale che borghese» proprio nelle pagine di Arbeiter.

L’Artefice/Arbeiter utilizza e domina la tecnica per mobilitare il mondo; il suo volto muta progressivamente in una maschera metallica che lo spersonalizza ma al tempo stesso lo rende partecipe di un’unità superiore, non dissimile a quella degli Ordini monastici medioevali. La visione destinale dell’Arbeiter è definibile come “Realismo eroico”. Dunque l’Arbeiter/Artefice non è certamente inquadrabile come un “ultimo uomo” nietzschiano come vorrebbe Askr Svarte.

Il testo de l’Arbeiter, sottotitolato “forma e dominio”, è il culmine e il punto di arrivo di una serie di opere politiche e belliche di Junger, iniziate con il romanzo autobiografico “Nelle tempeste d’acciaio”. Il titolo peraltro, è decisamente attinente con l’orizzonte interpretativo di Askr Svarte, visto che è tratto da una kenning per “battaglia” che deriva dall’Heimskringla di Snorri Sturluson.

Proprio quelle fonti norrene così care ad Askr Svarte ci consegnano una visione del tempo e del destino cosmico che potrebbe essere associata al “realismo eroico” di Ernst Junger, ovvero la visione di chi continua a marciare nonostante un destino di distruzione totale ed incombente: proprio nel suo libo manifesto Der Arbeiter Junger così si esprime: «La virtù che si conviene a questo stato è quella del realismo eroico, che non è scosso neppure dalla totale distruzione o dalla mancanza di speranza». Risulta facilmente accostabile a tale descrizione del “realismo eroico” quella dell’armata degli einherjar, guidati da Odhinn e dagli altri Asi, che affronta le forze del caos scatenate nel campo di Wigrid per dar luogo ad una battaglia cosmica priva di speranza, e che Odhinn sa essere tale[1].

Ci sono dunque diversi elementi per ritenere che l’interpretazione della tecnologia e del pensiero di Junger in Askr Svarte, e dell’Arbeiter in particolare, sia decisamente fuori focus. Inoltre, paradossalmente, Askr Svarte avrebbe trovato proprio nel realismo eroico dell’Arbeiter una prosecuzione ideale dell’amor fati nordico al cospetto del Ragnarok.

Prescindendo da questa, davvero incapacitante, impostazione tecnofoba, così come da alcuni abbagli in campo mitologico e dalla scarsa attenzione per la cultura germanica continentale – a vantaggio quasi esclusivo delle fonti islandesi – che porta l’autore a commettere clamorosi errori storici in merito al periodo delle invasioni barbariche; il tentativo mito-filosofico di Askr Svarte risulta comunque interessante e per molti versi sposabile.

Diverse sono infatti le riflessioni di cui fare tesoro a partire dal suo approccio appunto “mito-filosofico”.

«The word heide in german means “wasteland”, sometimes it is translated as “steppe”. According to the reports of the ancient roman historians, the germanic tribes cosidered a great honor to surround their settlement with as much uninhabitated land as possible. They found pride in living in solitude. We find the same word in icelandic heidr and in old english hæþen. From the icelandic heidr comes heidni wich means heathen; from old english hæþen comes the term heathen.»

In questo senso il termine “heathen” originerebbe dalla pratica di stanziarsi in zone tendenzialmente isolate rispetto ad altre comunità o insediamenti. Questo aspetto “campestre” e “selvaggio” è paradossalmente simile al concetto di “pagus” applicato ai pagani, seppure con connotazioni negative.

«Also we should add the fundamental position of M. Heidegger who lived in seclusion in the province and defended this image and place of life, as well the huge role of the black forest paths and trails, which the philosofer actively uses as metaphors and illustrations of his thought of being».

Si ripresenta dunque l’antagonismo tra comunità isolate e forzata convivenza cittadina, tra campagna e megalopoli: un dualismo affrontato a più riprese dalla cultura novecentesca, dalla rivoluzione conservatrice sino alla parabola teorico-esistenziale di Theodore Kaczynski.

Askr Svarte riconosce inoltre nel tradizionalismo pagano il valido impeto di eternizzare l’origine e di non voler “tornare indietro” verso un passato mitizzato. Il tema di un nuovo inizio heideggeriano si sposa con questa prospettiva etenica, corroborata da una messe di esempi e spunti.

Askr Svarte inoltre collega brillantemente il frammento Eracliteo “Polemos di tutte le cose è padre” con l’assemblea germanica del thing.

Il primo conflitto del mondo, quello tra Asi e Vani, narrato dalla Voluspa inizia infatti con un consiglio degli Dèi che devono deliberare sul da farsi.

 

Andarono allora tutti i potenti

ai seggi del giudizio,

gli altissimi dèi,

e tennero consiglio:

se avessero dovuto gli Æsir

un tributo pagare

o avessero gli dèi tutti

diritto a un compenso.

Se nelle Edda dunque, gli Dèi, prima di ogni grande decisione – e di quelle belliche in particolare – si riunivano, così sul piano terrestre i germani formavano la loro assemblea degli armati; di quegli uomini liberi che potevano portare le armi. Ogni inizio è dunque un Thing, ma ogni inizio è anche segnato dal portare le armi in assemblea per deliberare su di un possibile conflitto. D’altro canto, è nota l’iscrizione britannica dedicata al Mars Thincsus[2], probabile riferimento alla divinità germanica del Thing, il sovrano giurista Tyr/Tiwaz.

Ma perché denominato come il bellicoso Marte?

«Che genere di rapporti *Tiwaz-Mars intrattiene con la guerra? Prima di tutto non si tratta di rapporti esclusivi, visto che è connesso anche con altre attività: in numerose iscrizioni viene qualificato come Thincsus; egli è dunque sicuramente, a dispetto di interminabili discussioni, il protettore del þing (tedesco Ding), del popolo riunito in assemblea per giudicare e decidere. Ma, oltre a questa importante funzione civile, anche nella guerra stessa, *Tiwaz-Mars resta un giurista. Cediamo la parola a J. De Vries (op. cit., pagg. 173-175):

«…In tal modo il Dio Mars Thincsus è stato in stretti rapporti con l’assemblea del popolo, con il Ding; lo stesso si osserva in Danimarca, ove Tislund, nello Seeland, era un luogo dedicato all’assemblea del popolo. Dunque *Tiwaz era sia protettore del combattimento che dell’assemblea. In generale si è posto troppo in primo piano il suo carattere di dio della guerra e insufficientemente riconosciuto il suo significato per il diritto germanico… Queste due concezioni (dio delle battaglie e dio del diritto) non sono affatto contraddittorie. La guerra, in effetti, non è la mischia sanguinosa della battaglia, è una decisione, ottenuta tra le due parti combattenti e definita da precise regole giuridiche. Che si legga, nelle fonti storiche, come i Germani fissassero già con i Romani il luogo e il momento degli incontri: e si capirà come si trattasse di un’azione che doveva compiersi secondo regole giuridiche costanti.

Espressioni come Schwertding o l’antico scandinavo vâpnadómr non sono figure poetiche, ma corrispondono precisamente alla pratica antica. I gesti simbolici legati al combattimento ne sono delle prove incontestabili: la dichiarazione di guerra dei Latini tramite la hasta ferrata aut præusta sanguinea è immediata-mente comparabile al rito con il quale i Germani del nord gettavano una lancia sull’armata nemica; e questa lancia ha lo stesso significato essenziale della lancia al centro del Ding: se il Tŷr scandinavo, come già aveva notato J. Grimm, portava una lancia, era più come segno della sua possanza giuridica che come arma (vedi H. Meyer, Heerfahne und Rolandsbild, Nachr. 137 d. Gesellsch. f. Wiss., Ph.-hist. Klasse, Gottingen, 1930, pagg. 460 e segg.). Da tutti questi fatti considerati nel loro insieme diventa evidente che, in ogni aspetto, l’appellativo di Mars Thincsus risulta ben calzante per questo dio del diritto. Naturalmente i romani non potevano che considerarlo un dio della guerra, visto che agli inizi non sono entrati in contatto con i Germani se non tramite la guerra».»[3]

Vale infine la pena di sottolineare come il Germanic Logos, incentrato in ambito precristiano soprattutto sulla figura di Odino, sia in realtà rileggibile come Logos indoeuropeo, a partire dal fatto che molte delle caratteristiche magico-sciamaniche di Odino sono condivise da altre divinità indoeuropee, ovvero dai sovrani terribili e notturni come il vedico Varuna, il greco Urano e il balto-slavo Velinas-Veles.

Askr Svarte lambisce a più riprese dunque il tema del sovrano notturno ma sembra incapace di addentrarvisi sino in fondo: anche quando riconosce che Grimnir, epiteto di Odino che significa “il mascherato” e che ritorna nel cognome italiano Grima, fa riferimento all’aspetto notturno di Odino – nell’accezione della notte che avvolge e ricopre le cose proprio come fa una maschera – non coglie l’occasione per rendere davvero completa questa visione cogliendo l’analogia con le analoghe figure notturne del variegato mondo indoeuropeo, tra le quali Urano che avvolge tutto come fa la notte.

Dunque, più che un logos eslusivamente germanico sarebbe necessario rinverdire un Logos post-cristiano e indoeuropeo. E perché no magari a livello europeo superando le attitudini tecnofobe. Sarebbe questa la base per un accelerazionismo liberato dalle pastoie delle riflessioni cabalistiche di un Land.

 

Andrea Anselmo

[1] Su tutto ciò si veda Emilio They, Ragnarok, Arché, Milano.

[2] Da una iscrizione dell’età di Alessandro Severo ritrovata presso il vallo di Adriano che così recita: “Deo Marti Thincso et duabus Alaisiagis Bede et Fimmilene et N(umini) Aug(ustiGerm(ani) cives Tuihanti v.s.l.m.”

[3] G. Dumezil,  Mitra – Varuṇa Due rappresentazioni indoeuropee della Sovranità, Il Cerchio, Rimini, 2023.