Atlas (Netflix) – Un’occasione sprecata per parlare di AI
L’ennesima occasione sprecata. Atlas, nuovo film Netflix disponibile dal 24 maggio sulla piattaforma streaming, sembra più una marchetta svogliata che sfrutta l’argomento del momento per fare facili visualizzazioni che un film che vuole realmente affrontare la questione IA, i suoi rischi e le opportunità dell’interazione uomo-macchina. Forse affidare un film che affronta tematiche così importanti per l’era in cui viviamo a un regista come Brad Peyton, che finora si era cimentato solo in action di secondo piano e disaster movie con Dwayne Johnson, non è stata la scelta adatta. Lo stesso cast, composto da attori non certo di primo pelo come Jennifer Lopez, Mark Strong e Sterling Brown, recita come stesse interpretando una commediola action, inficiando ogni possibile sviluppo di spunti interessanti.
La trama è semplice, fin troppo banale: in un futuro prossimo, esattamente nel 2043, una AI che guida un androide di nome Harlan si ribella alla sua creatrice e guida una rivolta di macchine in stile Terminator. Trent’anni più tardi, quando gli umani sembrano aver finalmente bloccato la ribellione, l’esperta in AI Atlas Shepherd viene selezionata per aiutare un commando a trovare ed eliminare definitivamente Harlan e le ultime macchine ribelli.
Tutto ruota intorno all’evoluzione di Atlas, la protagonista che dà il titolo al film, inizialmente diffidente verso tutte le IA – era la figlia della creatrice di Harlan ed aveva assistito all’alba della ribellione – ma che nel corso del film sarà costretta suo malgrado a fidarsi di Smith, la nuova AI militare affidatale durante la missione, fino a collegarsi ad essa con una connessione neurale che, nel periodo per cui dura il collegamento, crea una interazione totale tra l’intelligenza umana e quella robotica.
In teoria il film vorrebbe essere ottimista e lanciare un messaggio positivo riguardo le IA, esortando a fidarsi e ad abbandonare le diffidenze. Ma è una esortazione priva di qualsiasi argomento. Non si capisce cosa cambi tra Harlan e Smith, quindi perché ci si debba fidare di uno e non dell’altro. Non si capisce insomma cosa cambi tra una generazione ribelle di AI e una generazione alleata. La stessa ribellione poi sembra avvenire proprio in seguito a una connessione neurale che permette ad Harlan di oltrepassare i limiti imposti dai suoi creatori, accedendo ad abilità umane, ma anni dopo Atlas riesce a vincere proprio grazie alla connessione neurale che le permette di accedere ad abilità sovrumane. Si potrebbe pensare che la differenza tra la prima e la seconda generazione sta proprio nella maggiore capacità dell’Uomo di padroneggiare la tecnica. Ma è una supposizione che resta tale nella mente dello spettatore. E si potrebbe pensare che la differenza di esito nella connessione neurale stia nella volontà: Atlas che connessa ad Harlan gli permette di ribellarsi è ancora debole e si fa dominare, Atlas che connessa a Smith raggiunge abilità sovrumane ha invece il controllo. Ma a ben vedere non è neanche così. Tutto sembra ruotare intorno al solito cliché dei limiti da non superare. Le abilità “superiori” ottenute da Atlas poi non sono ben definite. Certo, Smith capisce subito cosa fare e cosa calcolare al solo pensiero di Atlas, la quale ottiene risultati all’istante, ma tutto sembra sempre veicolato da un’interfaccia piuttosto che da una comunicazione neurale. E soprattutto il fatto che Atlas metta a disposizione la sua mente analitica mentre Smith metta a disposizione le abilità motorie – e solo quando Atlas è dentro il mezzo meccanizzato sui cui gira la AI – è quasi un paradosso, essendo l’analisi prerogativa delle macchine mentre l’azione quella degli uomini.
Insomma, c’è un “tecnopositivismo” senz’altro interessante che cerca di distinguersi dal solito scenario apocalittico e diffidente ai limiti del reazionario verso le AI, ma – come era stato per The Creator del pur ottimo Gareth Edwards, recensito sulla nostra pagina facebook – sembra che non si riesca mai a costruire una narrazione positiva che abbia una visione concreta, radicata e in qualche modo mitopoietica. Sembra insomma che l’uomo “occidentale” sia capace di dare vita solo ai propri incubi ma non riesca mai ad affermare una visione del futuro affermativa. Cosa che non succede invece ad oriente, dove ad esempio il Giappone ha offerto più volte esempi “tecnopositivi” che assumono quasi la dimensione di una nuova mitologia affermativa[1]. Perché in un Giappone che è insieme radicatissimo nella propria identità e lanciatissimo verso l’avvenire tecnologico questo è possibile mentre in un’Occidente sradicato e lanciato nel futuro come se fosse alla deriva no? La risposta, ovviamente, è nella domanda stessa. E pensare che la soluzione, almeno per gli Europei, potrebbe essere molto semplice.
Carlomanno Adinolfi
[1] Per maggiori approfondimenti sul rapporto, anche spirituale, tra Giappone e AI/Robot, cfr Prometheica vol 2, “Robot e Kami. La visione spirituale giapponese nella robotica e nei manga di genere mecha”